domenica 8 giugno 2014

Aeroporti, ritardi e considerazioni spicciole

Credo che il fatto di mandare un aereo in orario faccia troppo mainstream per Ryanair.
Così ho quattro ore da spendere in aeroporto a Treviso, quattro ore e un solo negozio. Ci sono entrata perché ho visto che vendevano gli smalti dell' O.P.I., poi ho visto che ogni smalto costava venti euro allora ho lasciato perdere. Venti euro per laccarmi le unghie non mi sembrano un buon compromesso.
Stavo per uscire quando mi sono resa conto che nel negozio (sempre quello, quello che soffre di solitudine) c'era il reparto libreria. A quel punto sono tornata indietro col proposito di comprare dei libri, visto che essendo dentro l'aeroporto avrei potuto trasportarne una quantità enne (n) senza beccarmi la ramanzina delle guardie. Alla fine venti euro di libri mi sembravano un investimento migliore.
Solo che poi c'è stato un disguido. Quando mi sono avvicinata agli scaffali ho realizzato, o meglio, ri-realizzato per l'ennesima volta, la decadenza sociale e “artistica” nella quale ci stiamo progressivamente infilando. Sembra un discorso ovvio, e in realtà lo è, però io oggi ho tempo da perdere quindi perché non blaterare di cliché?
Mi avvicino ai libri e dopo un'attenta perlustrazione mi rendo conto di poter scegliere, per i miei acquisti, tra:
  • One Direction, la strada verso il sogno;
  • Effetto Bergoglio, le dieci affermazioni di Papa Francesco;
  • svariate opere di Fabio Volo (o Fabio Bolo, checchevogliate voi)
  • e infine “11 minuti”, capolavoro di Paulo Cohelo il cui titolo, signori, sta ad indicare il tempo necessario all'esemplare uomo per completare un amplesso.
Se vi state chiedendo perché lo so, lo so perché io me li leggo anche, 'sti libretti di mezza letteratura, letteratura per poveri, per poveri di pensiero intendo. Li leggo perché alla fine credo non si possa criticare senza conoscere, anche se poi, dopo aver faticosamente conquistato l'ultima pagina di queste non-opere , mi arrogo il diritto di bannare definitivamente certi autori dalla mia lista letture.
Fatto sta che d'accordo, so che sto in aeroporto e non alla Marciana in Piazza San Marco, però io non posso fare a meno di pensare che se Papa Francesco e gli One Direction sono i soggetti che vendono meglio... allora abbiamo un problema. No? Dico, noi persone abbiamo un problema.

E anch'io ho un problema perché mi hanno appena ritardato l'aereo di un'altra ora.

Comunque, dicevo, questa impressione di decadenza generalizzata a volte mi assale e mi faccio prendere da certi quesiti esistenziali del tipo: quand'è che le opere letterarie hanno smesso di essere opere e sono diventate beni di consumo? Oppure, quand'è che abbiamo iniziato ad accontentarci della poesia spicciola che non buca la tela e non strappa il foglio? E tutta questa banalità e questi libri, canzoni, link-in-facebook preconfezionati per rispondere alla domanda della persona media, a lungo andare, non precludono la possibilità di sviluppare una sensibilità più profonda?

Sì, sì lo so esagero. Questo comunque è il primo step del pensiero. Poi di solito mi faccio due conti e parte la fase dell'autocritica. Ma Nico anche tu ascoltavi i Backstreet Boys, ma Nico anche tu ti spacchi di video tutorial che ti insegnano come sfumare l'ombretto sugli occhi, ma Nico anche tu a volte licenzi il congiuntivo e vai in giro a dire se volevo facevo, esattamente come fa Fabio Volo, insomma.
Però poi mi dico che la differenza forse sta nella consapevolezza.
Quando mi rotolo in campi di papaveri e ignoranza io credo di farlo consapevolmente.
Io, per esempio ascolto Keisha, ma quando si mette a cantare “it's pretty obvious that you've got a crush, that magic in your pants is making me blush” non intendo eleggerla frase d'amore dell'anno. Così come non penso che Tiziano Ferro raggiunga le vette dell'Olimpo nel momento in cui mi dice, tutto sguaiato e convinto, che notizia è l'anagramma del suo nome.
Però mi chiedo, gli altri ci pensano a queste cose? O sono solo io che filo dietro a 'ste stronzate?
Perché dopotutto lo so, lo so che ognuno ha il diritto di leggere ciò che vuole, lo so che nemmeno io sono immune a questa specie di consumismo artistico, alla poesia spicciola che sta nelle immagini di copertina in Facebook o che passa e sparisce sugli schermi dei nostri smartphone.
Però mi dispiace.
Mi dispiace che la gente pensi che Paulo Cohelo è davvero uno che scrive opere letterarie, mi dispiace che le parole siano diventate cibo da dare in pasto ad un pubblico che è ignorante. Ma ignorante secondo il significato etimologico del termine, ossia un pubblico che ignora, che non conosce e che spesso non vuole conoscere.
Mi dispiace anche quando cerco un libro da comprare e mi tocca mettere a soqquadro lo scaffale intero per recuperare, dietro il cofanetto degli One Direction, una copia di Memoria delle mie puttane tristi di Gabriel Garcìa Màrquez.
Mi dispiace perché io volevo un bel libro e l'unico che ho trovato aveva pure la sovracopertina rovinata.
Poi che volete, l'ho preso lo stesso, però mi dispiace perché certi libri non dovrebbero starsene dietro di tutto, un po' dimenticati e un po' spiegazzati.

Sono polemica? Sì, sono polemica.


Sono annoiata? Sì, solo anche annoiata, dato che il mio aereo ha un'altra mezz'ora di ritardo.

martedì 27 maggio 2014

Waiting on the world to change

Ho aperto questo blog sperando di creare un porto sicuro nel quale raccontare la mia vita e le piccole cose di ogni giorno. Talvolta, purtroppo, le carte che abbiamo nel mazzo non sono quelle con cui vorremmo giocare e, in questi casi, si tace sperando che domani le cose vadano meglio.
Per quanto mi riguarda le cose oggi non vanno meglio, ma perlomeno vanno diversamente.
Negli ultimi mesi ho cercato di rattoppare una situazione che chiedeva soltanto di essere riconosciuta per ciò che era. So che sembra un cliché, e forse infatti lo è. 
Forse capita a tutti, prima o poi, di dimenticarsi di se stessi e di fare costantemente caso alle esigenze altrui. 
Forse capita a tutti anche di inseguire quello che si vorrebbe invece di prestare attenzione a quello che effettivamente si ha davanti.
A me è capitato e per mesi non ho avuto nulla da raccontare. Adesso, forse, questo blog potrebbe essermi d'aiuto davvero, per spostare la mia attenzione altrove e per guardarmi attorno e non solo dentro.
Oggi sono molto delusa, e confusa e triste. Però oltre all'ammasso di sentimenti so che questo cambiamento porterà con sé qualcosa di buono.
Quindi con calma, aspetto, e nel frattempo magari scrivo. Della primavera, delle gite in kayak, delle lezioni di svedese, del buio che non arriva mai e di com'è vivere a Stoccolma da sola. 
Da sola.



domenica 23 febbraio 2014

Avventure linguistiche e metodi alternativi

Io quando andavo a scuola l'inglese non l'ho mai imparato. Vorrei dire che è andata così perché non ho avuto insegnanti competenti, oppure perché facevamo un sacco di esercitazioni ma non lo parlavamo mai... però la verità è che non me lo ricordo, perché io in classe ero troppo impegnata a fare a altro e a casa, invece di studiare, ero troppo impegnata a ri-fare altro.
Insomma, ad un certo punto ho avuto il mio primo vero contatto con la lingua inglese.
Ero in Corsica ed era il 2007. Mia cugina si era invaghita di un francese che non se la filava nemmeno di striscio e anzi, aveva una cotta per un'altra. Sebbene la faccenda si sarebbe poi rivelata profetica, lei all'epoca non si era ancora fatta le ossa, quindi scoperto l'altarino se n'era andata sconvolta. Drammi adolescenziali. Io lì, imbambolata di fronte al francese, realizzai di dovermi pronunciare in qualche modo per giustificare la situazione, così mi avventurai, senza remore, e in un battibaleno diedi sfoggio delle mie competenze linguistiche:

"Sorry, Giorgia is trist but you have a friend girl!" 

Quasi quasi potrei glossare l'enunciato, per tradurlo, come si fa nei papers. 
No non lo farò, ma vi basti sapere che intendevo dire "Mi dispiace, Giorgia è triste perché hai la ragazza." Vabbè, dai, vi ho visti scuotere la testa basiti, tranquilli io sto facendo lo stesso.
Dopo questo clash estivo contro la lingua inglese sono tornata tra i banchi, e ho continuato a non aprire un libro. A mia discolpa devo dire che da giovane ero piuttosto impegnata: avevo un sacco di libri da leggere ed ero convinta che sprecare il mio tempo facendo altro fosse una grossa colpa. Inoltre avevo il mio bel da fare a fidanzarmi, sfidanzarmi, deprimermi e spararmi De Andrè e Guccini per ore ed ore, alimentando i miei ideali di piccola anarchica.

Ad un certo punto ho iniziato l'Università, ed ho avuto modo di allargare i miei orizzonti musicali e, di conseguenza, linguistici. Sì, perché alla fine io l'inglese l'ho imparato così e dopotutto l'ho imparato abbastanza bene. Ore ed ore in Youtube ad ascoltare canzoni con l'opzione "lyrics", a tradurre i testi e a cantarli a squarciagola in macchina.
Così un po' alla volta ho smesso di essere soltanto una 'mangia-libri' e mi sono trasformata anche in una 'mangia-musica': dai Queen a Cat Stevens, da Paolo Nutini ai Dire Straits, dagli Alterbridge fino agli Oasis ho tradotto, tradotto e tradotto come una pazza.
Certo, la via verso l'inglese è stata lunga, torbida e a volte, in nome del mio progresso linguistico, ho davvero toccato il fondo. Ammetto con rammarico di aver tradotto persino Taylor Swift o gli One Direction, ma sono stati momenti bui, lasciamoli stare.

Insomma, l'inglese, tra una cosa e l'altra, di canzone in canzone, l'ho imparato.
Però non basta e adesso tocca imparare lo svedese. 
L'altra mattina me ne stavo lì a letto a fissare il soffitto e ho avuto l'illuminazione: perché non usare lo stesso metodo?!? Dopotutto, squadra che vince non si cambia!
Allora mi sono alzata, ho spostato con una gomitata il libro che avrei dovuto studiare, ho acceso il computer e mi sono messa a praticare la mia attività preferita: il googleraggio sfrenato. Insomma, nel giro di una mezz'oretta avevo googlato tutte le combinazioni possibili: "canzoni in svedese facili", "canzoni per imparare lo svedese", "svedese semplice canzone", "svedese-perchè-cazzo-non-sono-nata-imparata", "svedese voglio saperlo ma non ho voglia di studiare canzone testo facile". Insomma tutto.

Fatto sta che questo lungo (lungo...la fiera degli eufemismi eh?) intro serviva a giustificare i risultati della mia ricerca, risultati che vi posterò qui di seguito e riguardo i quali mi sento in dovere di dire un paio di cose.
Intanto ascoltatevi queste hits in svedese, poi ne riparliamo.









Insomma, ci siete ancora? Le avete ascoltate? Mi auguro di no, o almeno non fino alla fine! Ok, i titoli di queste canzoni, tradotti in italiano, sono i seguenti:
- "Il primo giorno di primavera";
- "L'estate è corta";
- "Estate in Svezia";
- "Una sera di Giugno".

Davvero, io non le ho scelte apposta. Ho googlato e ri-googlato, ma l'assortimento di temi per quanto riguarda il pop svedese sembra essere davvero limitato. Estate, sole, l'estate dura poco, a noi ci piace l'estate, a noi l'estate ci piace proprio tanto e, per finire, quando arriva l'estate???
Insomma, me ne sono andata in cucina a fare colazione un po' avvilita. 
Ora, io capisco che l'estate, per gli svedesi, sia un po' come la gita a Gardaland per noi italiani, ossia una cosa super figa che però dura un solo giorno all'anno. Lo capisco, davvero. Però io così lo svedese come lo imparo?
Ok, adesso so dire 'Giugno', so dire 'estate', so dire 'fiori', 'ballare sull'erba a piedi scalzi' e 'costume da bagno'. 
Però, se qualcuno viene a chiedermi che cosa faccio durante le prossime vacanze di Natale, quando fuori nevica e ci sono -20 gradi, io come gli devo rispondere?

Devo dirgli che me ne starò in costume a raccogliere fiori sotto il sole? 
No,certo. Mi sa che alla fine gli risponderò in inglese, dopotutto uno o studia, o fa fuoco con la legna che c'ha.

domenica 2 febbraio 2014

Sì, sono stata pickpocket-tata!

È proprio il caso di dirlo: trasferirsi all'estero ti porta a provare una marea di cose nuove, a vivere un sacco di esperienze elettrizzanti che non potrebbero mai capitare nel buco di paese da cui provengo. Per esempio ieri sono stata così fortunata da sperimentare qualcosa di davvero innovativo ed emozionante come...venire derubata!

Ebbene sì, nella super-sicura, super-civile e super-controllata capitale svedese, sono stata scippata. Qualcuno ha aperto la mia borsa e ha sfilato via il mio portafogli senza che me ne accorgessi.
Inutile dire che nel beneamato portafogli giallo limone c'era tutto quello che serve per sopravvivere in una società civilizzata: soldi (troppi soldi), carte di credito, tessera della metropolitana, patente, carta d'identità, tessera sanitaria, badge dell'Università di Stoccolma, nonché il mio vecchio badge dell'Università di Padova, che mi consentiva ripetuti sconti-studenti abusivi al cinema durante i miei periodi di permanenza in Italia.
Non so se l'intera faccenda si possa definire un concentrato di sfiga o un concentrato di idiozia, probabilmente entrambi.
Sfiga perché dai, facendo quattro calcoli, ho vissuto in questa città per un anno ormai. Essendo io barbona inside, per la metà del tempo me ne vado in giro senza una lira, pagando perfino il caffè con la carta di credito perché nello scomparto contanti del portafogli c'è sempre il deserto. 
Per questo weekend avevamo organizzato una gita fuori porta ad Helsinki e, appena prima della partenza, penso bene di prelevare. Di prelevare un sacco di soldi. Ma perché? Perché?
Col mio bel bottino in borsa mi avvio a prendere l'autobus verso il porto, ma non senza fare tappa al McDonald's, certo che no! "Ristorante" super affollato, sabato pomeriggio, valigie, borse, noi compriamo i cheeseburgers, paghiamo, ce ne andiamo, cerco la tessera dei trasporti per salire nell'autobus ed ecco che la borsa è aperta e del portafoglio nemmeno l'ombra. Yeah!
Ora io dico, non potevano rubarlo due giorni prima? Non ci sarebbe stata una lira dentro (anzi un euro, anzi una corona)! E poi dico, che cosa mi ha fatto pensare che prelevare un sacco di soldi prima di andare in vacanza fosse una mossa saggia? Certe volte veramente, come dicono le mie amiche, non si capisce come mi abbiano dato una laurea!
Insomma, morale della favola: il weekend ad Helsinki si è trasformato in un weekend alla centrale di polizia, i miei documenti sono scomparsi e io da brava furbona non li avevo nemmeno fotocopiati prima, giovedì dovrei partire per la Polonia, ma utilizzo il condizionale, dato che Ryanair non è certo famosa per lasciar imbarcare i passeggeri sprovvisti di documenti.
Evviva! Che disastro. 
Che cosa posso dire? Sono basita di fronte a tanta sfiga e inoltre continuo a pensare a tutto quello che avrei potuto comperare con le belle banconote che riposavano nel mio portafogli.
Vi sembra un pensiero materialista, poco costruttivo e inutile? Non me ne importa. Vorrei solo aver comperato qualcosa di bellissimo e costosissimo, invece l'unica cosa che comprerò da oggi fino al duemilamai, sarà un portafoglio in fintapelle plastico-pelle di H&M, in completa linea con la moda polare!

È bello vivere all'estero, si provano un sacco di nuove esperienze.
È bello vivere all'estero. Un po' più bello quando si hanno dei documenti, ma alla fine dai, va bene lo stesso.

Per chi avesse quattro minuti da perdere, qui di seguito tento di sublimare la sfiga nell'arte. Eccovi un significativo estratto del film francese "Pickpocket". Anno 1959, regista Robert Bresson.

mercoledì 1 gennaio 2014

Back to blogging!

Il primo di gennaio è senza dubbio il giorno migliore per interrompere questa spirale di pigrizia, riaprire il computer e ripromettersi di aggiornare il blog con la dovuta costanza. Certo, si sa che i buoni propositi, tutti quanti, lasciano un po' il tempo che trovano, però perché rinunciare ad una melensa, condivisa, tipica riflessione di "addio anno vecchio, benvenuto anno nuovo"?
A me in realtà i capodanni non sono mai piaciuti, perché non mi piace finire, non mi piace chiudere le cose, non mi piace fare bilanci. Però questa volta sono stata più brava, mi sono preparata. Ho fatto in modo di evitare le feste affollate, il divertimento-a-tutti-i-costi, il vagare per una qualche piazza a dieci gradi sotto zero pur di accalcarsi a guardare dei fuochi che mettono sempre un po' di malinconia. No, quest'anno mi sono organizzata e ho salutato questo brand new 2014 con pochi e buoni amici, tanto cibo e tante risate. 
Ho persino fatto una lunghissima lista di buoni propositi, nonostante io sappia fin dal principio che non li rispetterò. Però mentre li scrivevo pensavo che in fondo, IL buon proposito per eccellenza, è quello di smettere di condannarsi per ciò che non si è e accettarsi un po' di più. Sorridersi un po' di più.

L'anno che si è appena concluso è stato, senza dubbio, il più pieno ed intenso della mia vita. Vorrei trovare le parole giuste per descriverlo, ma la verità è che tutto, attorno a me, ha girato così in fretta da lasciarmi spesso spossata e felice, come in una trottola di colori che si mischiano e si ammassano l'uno sull'altro. Eppure da questa confusione, paradossalmente, le poche cose che si sono salvate, che sono rimaste le stesse, hanno reso il mio mondo più limpido e chiaro.
La lontananza è stata, talvolta, una lente preziosa attraverso la quale osservare le cose, e così ho potuto accorgermi di come alcune relazioni e alcuni affetti brillassero più di altri. Di come alcune persone siano e saranno sempre per me un appoggio essenziale, un porto sicuro.

Il 2013 è stato l'anno in cui, per la prima volta, ho preso la vita a due mani e ho deciso che cosa voglio e come lo voglio. Ho smesso finalmente di farmi trascinare dalla corrente.
Il 2013 è stato anche un anno di attesa. Ho pazientato, ho aspettato, ho desiderato e mi sono aggrappata ai miei desideri con le unghie e con i denti. 
Ho aspettato per ore al telefono cercando di comunicare con l'Ufficio Ammissioni dell'Università svedese, ho aspettato davanti al computer, per settimane, per mesi, la risposta che avrebbe cambiato ogni cosa. E ancora, sempre davanti ad un computer, ho aspettato per mesi, ogni sera, lo stesso volto e la stessa voce, che, puntuali, arrivavano a scaldarmi il cuore.
Ho aspettato e ho capito che per amore si aspetta. Che per i propri sogni si aspetta. Che a volte bisogna ingannare il tempo, contare le ore, distrarsi, insistere.
Il 2013 è stato un anno in bilico. L'ho passato quasi tutto in equilibrio sopra ad un filo e questo filo era teso tra paura e voglia, agitazione e felicità, gioia pura e buchi neri, coraggio e sfinimento. 
Il 2013 è stato l'anno delle amicizie che mi hanno scaldato il cuore. Mi sono trasferita in Svezia e, senza rammarico, ammetto di essere stata un cliché. Ho trovato i miei "italiani all'estero" e non avrei potuto essere più fortunata. 
A volte inizi un cammino con delle aspettative e ad un certo punto realizzi di aver trovato molto di più. Ecco, per me Stoccolma, ancora una volta, è stata così. Nella solitudine io non mi sono sentita mai sola, nella mia dis-abilità culinaria loro mi hanno cucinato un sacco di buon cibo, quando mi sono agitata per aver scoperto i primi capelli bianchi loro me li hanno tinti e nei momenti difficili mi hanno ascoltata e si sono presi cura di me. In questi ultimi mesi, ogni volta che mi è servita una pacca sulla spalla, loro non me l'hanno mai fatta mancare.
Il 2013 è stato l'anno della gratitudine. Ho capito che se io posso partire, fare, provare e vivere, questo avviene grazie al costante appoggio della mia famiglia. La loro capacità di tollerare la distanza e la mancanza pur di lasciarmi crescere come io lo desidero è ammirabile. La fiducia che loro ripongono in me è il regalo più grande.
Nel 2013 poi, last but not least, mi sono presa una cotta da paura, una cotta che dura tuttora e che poi forse solo una cotta non è. Ho dato un calcio a quelle che pensavo essere le mie esigenze primarie in ambito sentimentale, ho rinunciato a comunicare nella mia lingua, così come ho rinunciato ad una chioma folta e lucente, però dopotutto, in cambio, mi sono portata a casa molto di più. 
L'uomo che ho accanto è incredibilmente testardo, brillante, saggio, acuto, intelligente, stackanovista e divertente. E' una buona forchetta, un pessimo pattinatore e un grande amico. 
Il mio 2013 non sarebbe mai stato lo stesso senza di lui.

A voi tutti auguro uno splendido nuovo anno, ricco, intenso e pieno d'amore. 
Vi auguro di realizzare i vostri sogni, o perlomeno di provarci costantemente.
Vi auguro di essere esattamente nel posto in cui vi va di stare, cercando di fare ciò che vi rende felici, assieme a persone capaci di strapparvi un sorriso dopo l'altro.

Se c'è una cosa che più di ogni altra ho capito in quest'ultimo anno è che casa è veramente nel posto in cui ci sono le persone che amiamo.
Sarà per questo, forse, che ci sono molti luoghi nei quali io mi sento davvero, davvero, davvero molto a casa...?